“Bere un Brooklyn ti fa pensare che avresti dovuto scegliere un Manhattan“. La frase è stata pronunciata nel 2012, durante la convention Manhattan Cocktail Classic, alla presenza di autorità della mixology come il bartender Dale DeGroff e lo storico David Wondrich.
Il giudizio è poco lusinghiero solo in apparenza. In realtà il Brooklyn è un drink di tutto rispetto, però bisogna avere gli ingredienti giusti. Uno in particolare è difficile procurarselo, negli Stati Uniti.
Da qui l’idea che, se non puoi averlo, allora meglio rinunciare e ordinare direttamente un Manhattan. Del resto, parliamo di un miscelato che nasce proprio come twist di quest’ultimo.
Il papà del Brooklyn cocktail
È opinione comune che il papà del Brooklyn sia Jacob Grohusko (1876–1943), nato da ebrei russi immigrati negli Stati Uniti e attivo dietro i banconi di New York già nei primi anni del XX secolo.
Quando questa vulgata è messa in discussione si fanno i nomi di Maurice Hageman e Henry Wellington Wack, ma in entrambi i casi le ricette da loro proposte sono differenti. Quella di Wack prevede il gin al posto del rye, per dire.
Insomma, gli ingredienti giusti sono quelli che compaiono per la prima volta nel ricettario Jack’s Manual (1910), compilato da Jacob Grohusko, detto Jack. Sono gli stessi che ritroviamo quattro anni più tardi in Drinks di Jacques Straub. Da qui la comune convinzione che la paternità sia di Grohusko.
Come l’omonimo quartiere di New York City
Il Brooklyn è uno dei cinque cocktail che prendono il nome dai quartieri di New York ed è una variazione del più famoso di tutti: il Manhattan. Nasce appunto all’inizio del XX secolo e conosce il proprio periodo d’oro negli anni che precedono il Proibizionismo.
Il periodo della lotta senza quartiere agli alcolici ha prodotto la crescente difficoltà di reperire uno degli ingredienti principali, un amaro francese. Da qui l’inesorabile declino, perché a quel punto tanto valeva ripiegare sul Manhattan, che invece poteva essere preparato senza problemi di sorta.
La memoria non scompare del tutto: ad esempio troviamo il Brooklyn tra le pagine del The Savoy Cocktail Book di Harry Craddock (1930). Per assistere a un ritorno in grande stile, però, bisogna attendere la fine del XX secolo, quando effettivamente smette di essere un oggetto da archeologi della mixology. Pur restando i problemi che nel 2012 spingevano a dire che non valeva la pena ordinarlo, in assenza del giusto ingrediente, la sua fama riguadagna quota.
La ricetta del Brooklyn cocktail
Partiamo dunque dall’ingrediente problematico: si tratta dell’amaro francese Picon, a base di scorze d’arancia, radici di genziana, china e con l’aggiunta, successiva alla distillazione, di sciroppo di zucchero di caramello. Non ne serve molto, giusto un dash, ma è fondamentale per bilanciare la carica del rye whiskey e del vermouth dolce. In assenza, manca il tocco vellutato e resta solo la gradazione alcolica.
La ricetta del Brooklyn prevede parti uguali di rye whiskey e vermouth dolce, a cui aggiungere un dash di Picon e uno di maraschino. Versare delicatamente gli ingredienti in un mixing glass colmo di ghiaccio e mescolare con calma. Poi filtrare in una coppetta precedentemente raffreddata, oppure in un bicchiere old fashioned. La guarnizione non è necessaria: se la si vuole, meglio puntare su una ciliegina al maraschino.
Le varianti
Rispetto alla lezione di Jack Grohusko sono possibili parecchi twist. Per esempio modificare le proporzioni tra rye e vermouth, con due parti del primo e una del secondo: una soluzione molto diffusa. Oppure adottare la versione di Harry Craddock, che nel The Savoy Cocktail Book utilizza due parti di whisky canadese e una di vermouth dry: per una bevuta più secca ed energica.