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Sale nei cocktail, un rapporto complesso

Bilanciamento è una delle parole chiave per la riuscita di un cocktail e il sale può contribuirvi enormemente. Mai come in questo caso, però, bisogna lavorare con cura e competenza. Parafrasando un adagio caro a Spiderman: da grandi potenzialità derivano grandi responsabilità. E la differenza tra un drink esaltante e un intruglio devastante passa attraverso un confine molto sottile.

Sale nei cocktail, a cosa serve?

La cosa fondamentale, da tenere presente, è che il sale riduce le note amare. A sua volta, l’amaro comprime la dolcezza e l’acidità. Quindi il sale bilancia l’amarezza e, così facendo, esalta la trama dolce e acida di un cocktail.

Va da sé che tutto dipende dagli ingredienti con i quali interagisce. Per esempio: le bevande gassate acquisiscono profondità e consistenza, gli spumanti si fanno più taglienti, limone e lime guadagnano corpo, eccetera. Volendo azzardare un riassunto un po’ brutale: il sale serve a dare una spinta a uno o più componenti di un drink.

Molti sali, molte possibilità

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Non finisce qui, perché esistono differenti tipi di sale. Solo per fare alcuni esempi: quello rosso delle Hawaii ha un sapore ferroso, quello blu di Persia è speziato, il nero (di Cipro o delle Hawaii) è leggermente affumicato e in quello grigio di Bretagna spicca la salsedine. È inoltre possibile aromatizzarli, magari con del finocchio oppure del peperoncino.

Insomma, le variabili sono enormi: deriva da qui l’idea che da grandi potenzialità derivino responsabilità altrettanto grandi. Anche perché il binomio sale-mixology non è affatto obbligatorio. Ci sono cocktail i cui ingredienti parlano da sé e non hanno bisogno di spinte particolari.

Granulare o liquido

Mettendo fra parentesi le varietà esistenti al mondo, in generale il sale può essere utilizzato in forma granulosa (più o meno fine), oppure all’interno di una soluzione liquida.

In estrema sintesi: la prima opzione è preferibile per sottolineare la presenza del sale, mentre la seconda consente un perfetto amalgama con gli altri ingredienti e dunque un ruolo più defilato. Un conto è trovare un poco di sale sul bordo di un bicchiere, altro discorso è che sia stato shakerato insieme alla base alcolica.

Spulciando un po’ di testimonianze che si trovano in Rete, emerge la tendenza dei bartender a preferire la soluzione salina. Meglio ancora se la concentrazione è piuttosto forte (tra il 20% e il 30%), in modo da utilizzarla a gocce, come l’angostura, lasciando le grandi quantità agli ingredienti principali del drink.

Se invece la scelta cade sulla versione granulosa, allora spesso si utilizza per una spolverata finale, in superficie del cocktail, quasi fosse una mera decorazione. E se la si mette sul bordo del bicchiere, è ormai assodato che è bene ricoprirne solo una parte, così da lasciare al cliente la possibilità di scegliere se bere il proprio drink con il sale oppure senza, o magari alternando.

Sale nei cocktail, i più famosi

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Quasi ogni cocktail può essere arricchito con un pizzico sale. Utilizzato con accortezza fa emergere sapori che altrimenti resterebbero nascosti dietro quelli degli altri ingredienti. Per esempio, il bartender Jamie Dodge, del Barrio Costero di Asbury Park, lo mette nel Negroni.

In alcuni casi, però, la presenza del sale è meno azzardata. Soprattutto se la base alcolica è messicana. È perfetto per il Margarita (tequila, triple sec, succo di lime) e il Paloma (tequila, succo di lime, soda al pompelmo). Anzi, la ricetta IBA del Paloma prevede esplicitamente un pizzico di sale.

Abbandonando il Messico e veleggiando verso le isole caraibiche, scopriamo che la spinta salina ha una sua ragione d’essere nel Daiquiri (rum, succo di lime, sciroppo di zucchero). E poi c’è l’amato/odiato Bloody Mary, a base di succo di pomodoro, vodka e varie spezie o aromi. Fra i quali ci sta benissimo, appunto, il sale.