Nella storia della mixology il Proibizionismo rappresenta uno spartiacque, una frattura netta, per molti versi traumatica. Gli storici hanno individuato luci (poche) e ombre (tante).
La conseguenza peggiore è che mise in ginocchio l’industria del bere bene, facendo prosperare affari loschi poco attenti alla qualità dei drink. Nel contempo, però, favorì la scoperta e l’affermazione di distillati provenienti dall’estero, in particolare il rum caraibico. Allargò anche la clientela dei bar, soprattutto in favore delle donne. Luci e ombre, appunto.
Cos’è il Proibizionismo
Tutto cominciò con il Volstead Act e con il diciottesimo emendamento alla costituzione degli Stati Uniti d’America. Il 17 gennaio 1920 diventarono illegali la vendita, la produzione e il trasporto di alcol nel territorio nazionale. Questi provvedimenti nacquero grazie alle pressioni di gruppi religiosi e politici caratterizzati da forte moralismo. Le loro preoccupazioni erano legittime: il consumo di alcol era particolarmente elevato e, quando unito a povertà e criminalità, rappresentava un enorme problema sociale.
Le buone intenzioni iniziarono a essere meno buone quando portarono a posizioni estremiste, che puntavano al bando totale. Così la soluzione adottata si rivelò largamente inefficace, se non addirittura controproducente.
Le conseguenze del Proibizionismo
Molti studi accademici hanno evidenziato che il Proibizionismo causò un’effettiva riduzione del consumo di alcol pro capite, ma solamente all’inizio. Nel medio-lungo periodo si registrò invece un aumento, in alcuni casi stimato attorno al 60-70%. Inoltre, la proliferazione del mercato nero portò a un generale incremento della violenza.
Il 5 dicembre 1933 entrò in vigore il XXI emendamento, che ratificava il Blaine Act e abrogava quanto sancito nel 1920. Gli statunitensi tornarono ad acquistare alcol legale e sottoposto a regolare tassazione. Nell’arco di tredici anni, però, la mixology era cambiata in maniera radicale.
Organizzazioni criminali e crisi dei produttori
Un ruolo tutt’altro che secondario fu svolto dal crimine organizzato. Non è semplice valutare l’impatto del Proibizionismo sulle attività illegali, ma è convinzione diffusa che fu molto significativo. L’ascesa del gangster Al Capone rappresentò un perfetto esempio di quanto accadde.
Come detto poco fa, il consumo di alcol non rallentò. In assenza di canali legali di distribuzione, mafie di vario tipo si occuparono di rifornire il mercato statunitense. Ma questo non bastò a evitare la chiusura di migliaia di aziende a conduzione famigliareche erano emerse nei primi anni del XX secolo.
Se i produttori di birra riuscirono a reggere botta, quelli di sidro scomparvero del tutto. Di suo, il whiskey conobbe fortune alterne. Poteva ancora essere legalmente prescritto per ragioni mediche, ma la qualità andò incontro a un calo generalizzato.
Infine, vietare la vendita, produzione e trasporto di alcol comportò la chiusura dei bar gestiti alla luce del sole. Al loro posto nacquero una miriade di posti gestiti in segreto, talvolta da organizzazioni malavitose. Si chiamavano speakeasy.
Dall’età d’oro agli anni bui
La conseguenza principale di tutto questo, in termini di storia della mixology, fu la scomparsa di una cultura dei cocktail basata su ingredienti selezionati e ricette ben eseguite.
Relegare i distillati al mercato nero rese quasi impossibile garantirne la qualità, che di fatto calò, soprattutto nel caso di quelli prodotti all’interno degli Stati Uniti. Di conseguenza i cocktail classici, basati su accurati bilanciamenti dei sapori, divennero più difficili da preparare come si deve. Talvolta impossibili. Un’intera cultura del bere bene collassò.
Gli storici identificano gli anni precedenti al Proibizionismo come l’età d’oro della mixology. Con l’entrata in vigore del Volstead Act, il 17 gennaio 1920, iniziano quelli comunemente noti come anni bui. Un’epoca destinata a lasciare cicatrici profonde: bisognerà attendere decenni prima di assistere alla cosiddetta cocktail renaissance, cominciata a cavallo del XXI secolo.
Nuovi distillati, nuovi cocktail
Ci fu qualche luce, all’interno di questo panorama fosco. Il commercio clandestino di alcol, infatti, coinvolse anche le frontiere degli USA: da sud entrava tequila, da nord whisky canadese. In entrambi i casi si trattava di prodotti di buon livello. Una volta vinta l’iniziale diffidenza, gli statunitensi se ne innamorano.
Ciò portò all’affermazione di cocktail ancora oggi popolari: per esempio il Daiquiri e il Mojito. Coloro che potevano permettersi una vacanza all’estero ne approfittarono per abbeverarsi direttamente alla fonte dei nuovi trend.
Anche perché i migliori bartender erano espatriatilà dove potevano continuare a lavorare all’insegna della qualità. Parigi, Londra e Cuba furono tra le mete predilette. Così, le migliori ricette nate durante il Proibizionismo vennero dall’estero e con ingredienti che di statunitense avevano poco: vedi il cocktail Mary Pickford, nato a Cuba e a base di rum.
Se però torniamo all’interno dei confini statunitensi, allora la norma erano distillati di scarso valore. Da qui il declino e, in alcuni casi, la scomparsa delle ricette classiche. E nel contempo l’affermazione di drink pensati per nascondere alcolici di scarso pregio.
Insomma: gin da quattro soldi rendevano meglio con la tonica, piuttosto che all’interno di un Martini; i whiskey era meglio sposarli con ginger ale, lasciando perdere la soda. E la Cola, con il suo gusto prepotente e dolce, trovò una florida nicchia di mercato.
Il cambiamento della clientela
Il Proibizionismo produsse un importante cambiamento nella clientela dei bar. Prima che tutto diventasse illegale era raro che ci fossero donne, e se c’erano erano guardate male, perché si partiva dal presupposto che fossero prostitute (il che, spesso, era vero). Per contro, gli speakeasy le accolsero senza problemi, suggerendo ai produttori di bevande l’esistenza di un nuovo target demografico sul quale puntare.
Secondo quanto raccontato da Daniel Okrent in Last Call: The Rise and Fall of Prohibition (2010), questo ampliamento della clientela ebbe anche connotazioni razziali: bianchi e neri impararono a bere insieme, annullando le barriere sociali.
Tra le numerose conseguenze del Volstead Act, questa fu una di quelle che meglio sopravvisse all’abolizione del Proibizionismo e che non ebbe bisogno di una cocktail renaissance per tornare al centro della scena. Se dunque è lecito parlare di anni bui della mixology, non tutto il male venne per nuocere.