Croce e delizia del Kenya, il Chang’aa è il distillato che ha una storia affascinante, ma gli eventuali assaggi devono avvenire con cautela, soprattutto in loco. Il rischio è di morire. Letteralmente.
Che cos’è il Chang’aa
Il Chang’aa è un distillato del Kenya fatto con i cereali. Il più delle volte si tratta di miglio, mais e sorgo, che vengono macinati, sottoposti a distillazione e poi al passaggio in alambicco. Ha un carattere tosto e una gradazione alcolica piuttosto elevata.
La storia e il nome del distillato del Kenya
La nascita del Chang’aa affonda le radici indietro nel tempo, ma nessuno sa con esattezza quanto: molto probabilmente parliamo del periodo precoloniale. All’epoca questo distillato si faceva in casa, senza particolari regolamentazioni. Poi i colonizzatori britannici decisero di vietarne la produzione, ma questo non fermò gli alambicchi. Semplicemente, li rese illegali.
Pare che il nome Chang’aa sia nato proprio in questo contesto. Leggenda vuole che un funzionario dell’Impero britannico fosse stato informato di come le donne del luogo lo contrabbandavano. Cioè, nascondendolo fra le pentole utilizzate per trasportare il latte e venderlo lungo le strade.
Dunque, il funzionario le ferma, ispeziona i loro contenitori e scopre che effettivamente uno è pieno di pelele (il termine utilizzato in quel momento per identificare il superacolico). A questo punto chiede all’interprete di domandare. «Di chi è il latte?». La traduzione in dialetto Dholuo, parlato in Kenya e Tanzania, suona più o meno come «Ma Chag ng’a?». Da qui il nuovo nome, che introduce una piccola ma significativa variazione.
Il Chang’aa, il distillato del Kenya diventa legale
Vale infatti la pena di sottolineare quanto sostenuto dall’Economist nel 2010 (anno importante: ci torneremo). In un articolo pubblicato a fine aprile, si legge che la parola chang’aa significa “uccidimi velocemente”.
Il distillato del Kenya promette dunque seri danni alla salute, compresa la morte. Questo perché la produzione illegale avviene senza particolari riguardi per le condizioni igieniche e soprattutto aggiungendo sostanze tossiche allo scopo di potenziare l’effetto sbronza.
Proprio nel 2010 il governo keniota decide di regolamentarne la produzione. Lo scopo è duplice: sottrarla al controllo criminale e immettere sul mercato un distillato sano. Il successo è stato solo parziale.
Come si produce il Chang’aa
Le indicazioni del governo sono sostanzialmente simili a quelle adottate in altre parti del mondo. Sono indicate le materie prime (miglio, mais e sorgo) ed è richiesta una lavorazione controllata.
La fermentazione deve avvenire nel rispetto di basilari norme igieniche e il passaggio in alambicco deve prevedere il taglio delle teste e delle code. Niente affinamento in botti di legno: l’imbottigliamento è immediatamente successivo alla distillazione e deve essere in bottiglie di vetro, sulle quali indicare chiaramente i rischi per la salute in caso di abuso. La vendita ai minorenni è vietata.
Come non si dovrebbe produrre
Rispettare le indicazioni governative significa spendere denaro. Molto più di quello che possono permettersi di investire numerosi produttori, senza contare coloro che non intendono affatto investire, per esempio le organizzazioni criminali.
Il fatto è che il Chang’aa è un prodotto povero ed è inestricabilmente connesso a condizioni di povertà. La sua fortuna commerciale è determinata dal fatto che costa poco, significativamente meno di qualunque alternativa alcolica in circolazione. E ti stordisce molto prima: un’accoppiata devastante, quella tra convenienza e sbronza.
Ciò che manca è l’attenzione per la salute: il Chang’aa illegale è lavorato in scarse condizioni igieniche, senza lavare adeguatamente l’attrezzatura e recuperando l’acqua per la distillazione direttamente dai fiumi (inquinati o meno che siano). Peggio ancora: il taglio di teste e code non è contemplato e ciò porta a dannose presenze di metanolo.
Come se non bastasse, capita spesso che la bevanda venga “corretta” allo scopo di aumentarne la capacità di sballare. Le aggiunte possono essere carburante per aerei, acido delle batterie, liquido per imbalsamare. Tutte cose che fanno malissimo, se ingerite.
La decisione del governo
Per questo nel 2010 il Kenya tentò di regolamentare la produzione di Chang’aa: la gente sviluppava dipendenze devastanti, con serie conseguenze sulla salute che spesso conducevano alla morte. Va da sé che le organizzazioni criminali hanno fatto orecchie da mercante: la domanda di Chang’aa a basso costo non è calata, dunque, la produzione è continuata come nulla fosse.
Coloro che avrebbero voluto uniformarsi alla legge si sono scontrati con investimenti insostenibili ai più. Per esempio: se vivi in una baraccopoli e produci Chang’aa, non avrai mai il denaro necessario a rispettare il disciplinare governativo. Ma il tuo distillato tiene in piedi la precaria economia famigliare. Dunque, si va avanti come prima.
Come si consuma
Tutto ciò detto, è chiaro che il Chang’aa illegale non si consuma. Quello legale non ti uccide, dunque possiamo avventurarci negli assaggi. Non è molto chiaro come dev’essere degustato, anche perché le usanze tradizionali sono figlie della sbronza dannosa, quella che prevede di trangugiare senza troppi riguardi.
Volendo, si potrebbe optare per il classico shottino: senza ghiaccio, giù tutto d’un fiato e via. Oppure si potrebbe adottare l’approccio tipico di molte acquaviti: bevuta in brevi sorsi, distribuendo il Chang’aa lungo tutta la bocca, così da apprezzarne le caratteristiche.