C’è una sola “dea della libagione” e il suo nome è Audrey Saunders. Il soprannome è stato probabilmente inventato dal quotidiano canadese The Ottawa Citizen, nel 2003, ed è stato adottato da molti. Del resto, parliamo di una delle bartender più famose al mondo e di uno dei centri gravitazionali della cocktail renaissance newyorkese.
È stata allieva di Dale DeGroff e sua protetta, ha fatto faville dietro il bancone del celebre Pegu Club e ha inventato drink che hanno saputo superare brillantemente la prova del tempo. Senza di lei non avremmo avuto il Gin Gin Mule, né l’Old Cuban. Grazie Audrey, i bevitori siamo colmi di gratitudine.
Audrey Saunders, una passione nata grazie al cinema
I genitori sono svizzeri, lei è statunitense doc: nasce nel 1962 nella cittadina di Port Washington, adagiata sull’isola di Long Island, in una zona che fa parte della grande area metropolitana di New York.
Secondo il già citato The Ottawa Citizen, la prima fascinazione per il mondo dei cocktail giunge per merito del cinema giallo. In particolare la serie Tin Man. Il primo lungometraggio esce nel 1934 ed è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Dashiell Hammett (pubblicato in Italia con il titolo L’uomo ombra).
I cinque sequel nascono dal successo del film originale. Hammett non è più la fonte d’ispirazione primaria (ha scritto un solo libro), ma i protagonisti sono sempre quelli: Nick e Nora Charles, marito e moglie che risolvono crimini scambiandosi battute argute e gustando Gin Martini.
L’ingresso nel mondo della mixology
Alla curiosità per i cocktail si aggiunge la passione per la cucina, in particolare quella francese. Partecipa a dei corsi professionali, ma, quando si tratta di aprire la sua prima attività, la scelta cade su un ambito differente: un’impresa di pulizie aziendali.
Poi il cuore prende il sopravvento e Audrey Saunders inizia a lavorare presso il Waterfront Ale House di Brooklyn, in qualità di bartender. Deve ancora farsi le ossa, i cocktail preparati non sono un granché e i clienti non chiedono di meglio. Però è un inizio.
Sulle prime il manager del bar è dubbioso, poi riconosce la passione e un giorno le dice: se vuoi davvero fare sul serio, in questo campo, allora frequenta il seminario di Dale DeGroff. E chiosa mettendole in mano una copia del New York Times nella quale si annuncia una lezione di lì a pochi giorni, all’interno della New York University.
Lei ci va e rimane di stucco. Tutto ciò che le sarebbe piaciuto fare, che visualizzava in maniera confusa nella mente, acquisisce d’un tratto contorni definiti e una direzione precisa. Saunders capisce che c’è modo di fare le cose in maniera nuova e per bene. Finito il seminario si presenta a DeGroff, gli consegna il proprio biglietto da visita e dice: voglio diventare più brava possibile e per farlo sono disposta a lavorare gratis.
Il sodalizio con Dale DeGroff
La faccenda dei compensi zero va avanti per un po’ di tempo. A partire dal 1996 DeGroff la chiama in occasione di eventi di beneficenza, e nel 1999 le cose sono mature per il grande balzo: DeGroff sta aprendo un nuovo locale, il Blackbird, e le propone di lavorare insieme.
Questa volta non è un fatto occasionale: si tratta di una frequentazione quotidiana, dalla quale imparare tutti i segreti del mestiere. E di farlo insieme a uno degli artefici della renaissance newyorkese dei cocktail, a base di ingredienti selezionatissimi e ricette eseguite con precisione.
I due fanno anche visita al piccolo Milk & Honey di Sasha Petraske, altro tempio della mixology di razza, aperto da poco e già al centro della mappa degli intenditori. “Che bello, c’è n’è un altro come noi!“, ricorderà Audrey Saunders in un breve memoir scritto per il magazine Difford’s Guide.
Come spesso accade, i locali di DeGroff aprono e chiudono. Ma per lei c’è sempre posto. Dopo il Blackbird, il sodalizio la porta dietro il bancone del Beacon Restaurant, del Windows on the World e del The Tonic. Aumentano le responsabilità e con esse la possibilità di dare la propria impronta. Al The Tonic, nel menù compaiono i drink da lei inventati: i già citati Gin Gin Mule e Old Cuban, ai quali si aggiunge il Jamaican Firefly.
La pausa forzata di Audrey Saunders e il ritorno in pista
L’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, impone una pausa forzata. Il Windows on the World era nel World Trade Center ed è andato in frantumi. Altri locali si trovavano nei dintorni. Audrey Saunders rimane senza lavoro.
Alcuni mesi più tardi squilla il telefono: c’è da rilanciare il Bemelmans Bar, dice DeGroff, e serve una guida capace. Saunders accetta e nel giro di poco tempo trasforma un locale sonnecchiante in uno dei posti più alla moda di New York City. Tutti vogliono assaggiare i nuovi cocktail e la stella di Saunders brilla sempre più splendente. Manca solo un ultimo tassello, al puzzle del trionfo. Si chiama Pegu Club.
Il Pegu Club
Qualche tempo prima, quando lavorava al The Tonic, Audrey Saunders aveva conosciuto la collega Julie Reiner. Le due avevano lavorato fianco a fianco nel corso di un evento organizzato a Dale DeGroff. Simpatia a mille, intesa perfetta, cuoricini per ogni dove.
Un giorno Reiner si fa avanti con una proposta: i suoi partner finanziari stanno pensando di aprire un nuovo bar e Saunders sarebbe la persona perfetta per gestirlo. Così nasce il Pegu Club, al confine tra SoHo e il Greenwich Village di Manhattan.
Ricorda Saunders: “In quel momento, il 99% dei bar di New York avevano almeno venti bottiglie di vodka, dietro il bancone, e al massimo tre gin” (in linea di massima, la vodka è più semplice a miscelare e crea meno problemi di bilanciamento). Ancora Saunders: “Conoscevo molto bene il potenziale dei cocktail a base di gin e volevo che il mio locale se ne facesse portabandiera. Così ho rotto gli indugi e ho aperto avendo a disposizione ventisette gin e tre vodka. Ho chiesto a Dale cosa ne pensasse e lui mi ha risposto: funzionerà“.
L’eredità del Pegu Club
La predizione si rivela esatta e in men che non si dica il Pegu Club diventa un faro luminosissimo della mixology di qualità e uno dei posti più influenti di tutti gli Stati Uniti. La pandemia di Coronavirus non risparmia però l’eccellenza e il Pegu chiude definitivamente nel 2020, portandosi nella tomba un’eredità preziosissima.
Qui sono nati trend, ed è diventato normale utilizzare ingredienti all’epoca difficilissimi da recuperare: per esempio il Punt e Mes e la Chartreuse. E sempre qui si sono formati bartender di razza, gente che Saunders sfidava a identificare “quanti dash di bitter mettere nel Sazerac a seconda del whiskey utilizzato come base alcolica“.
Ultima notazione: in tempi recentissimi, parliamo del 2021, Audrey Saunders ha contribuito alla redazione del The Oxford Companion to Spirits & Cocktail.