In estrema sintesi, la chiarificazione è un processo che separa le particelle solide dal liquido all’interno del quale sono sospese. Per rimanere nell’ambito che maggiormente ci interessa, possiamo avere succhi di frutta chiarificati, oppure spiriti o vino. Persino le puree.
Cos’è la chiarificazione
L’esempio più immediato è quello dei succhi, che possiamo riconoscere a occhi chiusi grazie alla loro consistenza. L’acqua di bottiglia, insomma, ha una texture differente rispetto a una spremuta d’arancia o al succo di pera. Dipende appunto dagli elementi solidi.
Un discorso simile riguarda anche il vino, che acquisisce “rimasugli” nel corso della fermentazione. La medesima cosa avviene con gli spiriti: dopo fermentazione, distillazione e affinamento in botte, la presenza di sedimenti è normale. Possono derivare dall’alcolico in sé, quello bianco, oppure dal legno.
Non è niente di grave, e anzi le mode possono mettere sugli scudi le particelle solide. Pensiamo per esempio alle recenti fortune degli spumanti sur lie, che hanno in bottiglia quantità evidenti di lieviti esausti. Se invece desideriamo un prodotto più limpido, allora dobbiamo passare attraverso la chiarificazione.
Come funziona la chiarificazione
Esistono varie tecniche per separare le particelle solide. La più antica e artigianale è la decantazione: con il trascorrere del tempo i residui pesanti subiscono la forza di gravità e tendono a depositarsi sul fondo, da dove è facile prelevarli.
La chiarificazione può avvenire anche ricorrendo a filtri con maglie molto sottili, oppure grazie alla filtrazione a freddo: cioè sfruttando i diversi punti di congelamento delle sostanze che vogliamo eliminare.
C’è anche l’opzione dei carboni attivi, frequente nei distillati e che ha un’ulteriore conseguenza: filtra pure i pigmenti, decolorando cioè lo spirito. È in questo modo che si ottengono, per esempio, dei rum affinati in botte, ma che sono venduti chiari e trasparenti.
Le conseguenze
A prescindere dalla tecnica utilizzata, la chiarificazione modifica significativamente la texture di un liquido, cioè la sensazione tattile che proviamo quando lo teniamo in bocca. In alcuni casi ciò determina la riuscita di un cocktail: da un Bloody Mary ci aspettiamo una consistenza che invece non desideriamo in un Martini. E le attese, più o meno soddisfatte, contribuiscono al gradimento.
Cambia pure il sapore, per quanto talvolta ci vogliano palati sopraffini per apprezzare veramente le differenze. In ogni caso: gli elementi oleosi di un rum influenzano il panorama organolettico del distillato, così come la presenza di lieviti in uno spumante.
In ultimo contano le già citate tendenze, che possono spingerci a preferire un prodotto chiarificato, o meno, in base a considerazioni più ampie. Il movimento dei vini naturali, per esempio, ha sdoganato presso il pubblico bottiglie torbide che prima non avrebbero riscosso successo. Ora c’è chi le cerca proprio perché desidera un certo tipo di suggestione.
In conclusione, di per sé la chiarificazione non è un bene né un male: è una tecnica “neutra” (nel senso del giudizio di merito) che può essere applicata alla produzione di un distillato, di un vino o di un succo. Come spesso accade, a fare la differenza saranno la coerenza del procedimento nel suo complesso, la modalità di esecuzione e la qualità delle materie prime.