Quella della cocktail renaissance è la storia di un trionfo. Capita infatti che persone appassionate provino a trasformare un sogno in realtà. Il più delle volte sbattono la faccia contro porte chiuse. Talvolta riescono nell’impresa e creano qualcosa di significativo, per loro e per una nicchia di appassionati. Difficilmente fanno proseliti.
Quasi mai il successo conquista il mondo intero e marchia a fuoco i decenni a seguire. Proprio in questo sta l’eccezionalità della cocktail renaissance. Se oggi beviamo drink di un certo tipo è perché una quarantina d’anni fa un manipolo di bartender ha deciso che andare controcorrente aveva senso. Per nostra fortuna, puntavano alla massima qualità.
Cos’è la cocktail renaissance
Con il termine “rinascimento dei cocktail” si intende il movimento che riportò in auge ricette e lavorazioni che erano la norma nell’età d’oro della mixology, cioè prima del Proibizionismo, ed erano andate perdute.
In poche parole: riscoperta dei cocktail d’un tempo, preparati con la massima attenzione alle proporzioni e agli ingredienti. Niente ricette eseguite con approssimazione, cercando di appagare la vista più del palato. Niente coloranti negli alcolici e pacchianate nelle guarnizioni. Niente forma a discapito della sostanza.
La cocktail renaissance rappresentò una rivoluzione, ma anche un periodo in cui i bartender impararono da capo i fondamenti della professione, e i clienti rieducarono il gusto. Il centro gravitazionale fu New York City. Successivamente entrarono in gioco San Francisco, Chicago, Portland, al di qua dell’oceano Londra e poi le aree metropolitane di mezzo mondo. I principali artefici del cambiamento furono Dale DeGroff, Dick Bradsell, Sasha Petraske, Audrey Saunders e Julie Reiner.
Date e contesto della cocktail renaissance
È opinione comune che la cocktail renaissance inizia a metà degli anni Novanta e termina alla fine degli anni Dieci del nuovo millennio, quando ormai il rinascimento è diventato la norma per ogni bar che si rispetti.
Sulla data di nascita ci sono però voci in dissenso: l’autorevole Oxford Companion to Spirits & Cocktails (2021) afferma che dobbiamo spostarla in avanti fino al 2004. Prima si può palare di semi che iniziano a mettere radici, ma non di piantine vere e proprie.
Al di là di questo, un elemento importante è il contesto: la cocktail renaissance emerge da una diffusa reazione agli eccessi della trasformazione agroalimentare. Siamo negli anni Sessanta e Settanta, quando prende forma un’idea di cucina basata su materie prime locali, stagionali e fresche. Filosofia che in un secondo momento si estende alla produzione di birra artigianale e che poi investe il mondo dei drink da bancone.
L’ABC della cocktail renaissance
Le principali traiettorie seguite dalla cocktail renaissance furono quattro: le riassumiamo brevemente.
Frutta fresca
Quando Dale DeGroff e compagnia iniziarono la rivoluzione, la norma era rappresentata da prodotti zeppi di conservanti, aromi artificiali e dolcificanti. Il magazine Punch ha coniato una definizione perfetta: i cocktail bar dell’epoca assomigliavano a “una corsia di supermercato”.
I pionieri del rinascimento trasformarono queste corsie “nel negozio di un fruttivendolo, dove la materia prima era appena colta e la sua provenienza era certificata. Era terminato il tempo delle ciliegie al maraschino color rosso neon e che sembravano completamente avulse dall’albero su cui erano cresciute. Ora c’erano ciliegie fatte in casa utilizzando frutta vera”. Il medesimo discorso valeva per limoni, lime e arance.
Distillati di qualità
Va da sé che la frutta fresca chiama a gran voce ingredienti di analogo livello. Divenne sempre più importante trovare sode e distillati di qualità, meglio ancora se provenienti da una produzione di nicchia.
La regola base era: abbasso il prodotto squallidamente industriale. Gli strali erano rivolti soprattutto contro le vodke aromatizzate che avevano inondato il mercato nei decenni del secondo dopoguerra.
Chi desiderava comunque aromi di un certo tipo, ora tendeva a creare infusi domestici, scegliendo con cura i propri spiriti e andando in cerca delle migliori personalizzazioni a base di erbe, spezie o frutta.
Il ritorno dei classici
Gli ingredienti giusti non bastano, se li usi male. Da qui il ritorno dei ricettari di fine XX secolo, su tutti How to Mix Drinks di Jerry Thomas (1862). Le proporzioni dovevano essere rispettate, le tecniche di miscelazione pure.
Presto i drink tamarri cedettero il passo alla nobiltà di un tempo: Martini, Manhattan, Old Fashioned e via elencando. E i classici che erano stati modificati alla bell’è meglio riconquistarono dignità. Per esempio, un Daiquiri non poteva più uscire da una macchina per granite, già miscelato con logica industriale. Doveva essere preparato al momento, utilizzando lo shaker e ingredienti di qualità.
Un lavoro serio
Tutto questo fu possibile perché cambiò l’approccio al lavoro: per anni ci si poteva tranquillamente improvvisare, dietro un bancone.
Ora divenne obbligatorio studiare, fare pratica, prestare attenzione a una quantità di cose. Non solo all’esecuzione di una ricetta, ma anche alla gestione di un locale, all’approvvigionamento delle materie prime e alla relazione con la clientela. Che, di suo, non pagava più per bere e dimenticare: voleva degustare, capire, imparare.
Così quello del bartender divenne un lavoro rispettato e persino ammirato. E i nomi di punta divennero autentiche star. Gente che teneva conferenze, scriveva libri e generava file di avventori entusiasti, facendo proseliti nel mondo intero.