Daisy è una famiglia di cocktail che affonda le radici molto indietro nel tempo. Col trascorrere dei decenni ha conosciuto aggiustamenti, modifiche, piccole rivoluzioni. Significa che i suoi rappresentanti sono piacevoli al gusto, ma terribili da definire con esattezza. E questo nonostante alcuni nomi siano celeberrimi: vedi il caso di Margarita, Sidecar e Cosmopolitan.
Le antiche origini dei Daisy cocktail
L’albero genealogico dei Daisy cocktail risale indietro fino a metà dell’Ottocento. Una data che, nella mixology, equivale più o meno all’età antica, con tutto ciò che segue in termini di incertezze sulle fonti.
Gli storici sostengono che la prima testimonianza scritta compare nella seconda edizione di un testo capitale: “The Bartenders Guide or How To Mix Drinks: The Bon-Vivants Companion”, scritto dal leggendario Jerry Thomas. L’anno è il 1876 e si fa esplicita menzione del Brandy Daisy. È fatto con 3-4 dash di gum syrup, 3-4 dash di curacao, il succo di metà limone, un bicchierino di brandy e 2 dash di rum giamaicano. Shakerare, versare in un bicchiere e colmare con acqua di Seltz.
Sempre Jerry Thomas, ma in un’edizione successiva della Bartenders Guide, quella pubblicata nel 1887, elenca quattro Daisy diversi: Whiskey Daisy, Santa Cruz Rum Daisy, Gin Daisy e ancora Brandy Daisy.
La definizione (ostica)
Incrociando le ricette si evince che un Daisy è un cocktail shake and strain. Successivamente alcuni ingredienti cadono in disuso, ma all’inizio non possono mancare una base alcolica, gum syrup, succo di limone e acqua di Seltz. Una definizione abbastanza chiara, ma con già alcune eccezioni alla regola: il curacao può essere sostituito con maraschino, e se c’è il whiskey occorre il succo di mandorla.
Ulteriore elemento fumoso: fra l’edizione del 1876 e quella del 1887 cambia il bicchiere in cui versare il cocktail. Da qui un dubbio che ha resistito fino a oggi: un Daisy è uno short oppure un long drink? Il grande libro dei cocktails (1986), a firma di Selow Disht e Luciano Imbriani, propende per la prima ipotesi: chi siamo noi per dare loro torto?
L’evoluzione dei Daisy cocktail porta caos
Sono dubbi che gli avventori forse si ponevano, forse no, chi lo sa. Ma se parliamo di preferenze, la classifica dei Daisy cocktail più richiesti registra un avvicendamento: tempo un paio di decenni e l’originale ricetta a base di brandy cede il passo alle versioni con whiskey e gin.
Si affermano anche twist piuttosto liberi. Talvolta sforando nel territorio che appartiene alla famiglia dei sour e in questo modo confondendo le acque e complicando la vita a chi si pone il compito di stilare definizioni chiare.
Poi arriva il proibizionismo e lentamente altri cocktail conquistano la ribalta. Fino a quando il Margarita si prende la scena.
3 Daisy cocktail da provare assolutamente
Ecco quali sono i Daisy cocktail da conoscere e assaggiare almeno una volta nella vita.
Margarita
Dire che il Margarita si prende la scena significa dare per buona una delle numerose storie sulla nascita di questo cocktail. Narra che il Brandy Daisy lentamente conquista gli Stati Uniti, successivamente acquistando maggiore impulso nella forma del Whiskey Daisy.
Attorno agli anni Venti quest’ultimo attraversa il confine messicano e si ferma a Tijuana, dove si diffonde il twist che adotta come base alcolica la tequila. Cambia anche il nome, perché il Tequila Daisy diventa presto il Margarita (daisy significa margherita, che in spagnolo si dice appunto margarita).
Con questo nome, e con una ricetta leggermente diversa, il cocktail torna negli Stati Uniti intorno al 1939. Piace un sacco, si diffonde a macchia d’olio e nei primi anni Cinquanta arriva la prima certificazione scritta della ricetta: due parti di tequila, una di triple sec (liquore aromatizzato all’arancia) e una di succo di lime. Shakerare energicamente e poi versare in una coppa, guarnendo con una fettina di lime o di limone e, volendo, un po’ di sale sul bordo.
Cosmopolitan
Arrivati fin qui non sorprende che la prima menzione di questo cocktail avvenga con il nome Cosmopoiltan Daisy. La troviamo sulle pagine di un libro pubblicato nel 1934 e intitolato Pioneers of Mixing at Elite Bars 1903–1933. La ricetta è piuttosto diversa da quella odierna: prevede gin, Cointreau, succo di limone e sciroppo di lampone (espressamente fatto in casa). Proprio le differenze hanno portato all’ipotesi che in realtà il Cosmopolitan così come lo conosciamo oggi sia nato in circostanze diverse e molto più di recente.
La paternità è però discussa. C’è chi dice che è stato merito di Neal Murray, chi di Cheryl Cook, chi infine chiama in causa Toby Cecchini e Melissa Huffsmith-Roth. Sia come sia, l’IBA stabilisce che per prepararlo servono 4 centilitri di vodka, 1,5 di cointreau, 1,5 di succo di limone e 3 di succo di mirtillo. Shakerare con brio, filtrare in una coppa e guarnire con una scorza di lime.
Sidecar
Ormai sappiamo che le origini dei cocktail sono spesso poco chiare e la regola si conferma anche in questo caso. L’ipotesi più attendibile è che sia stato inventato alla fine della prima guerra mondiale, in Francia, presso l’Hotel Ritz, e che sia stato importato in Inghilterra dal bartender Pat MacGarry. Ma ancora oggi le due capitali europee si contendono la paternità e altri maestri della mixology vengono tirati in ballo. Ad esempio Harry MacElhone.
La prima ricetta del Sidecar compare proprio in un suo libro, l’edizione del 1922 dell’Harry’s ABC of Mixing Cocktails. Prevede parti uguali di cognac, Cointreau e succo di limone ed è nota come quella della “scuola francese”. L’IBA ha invece fatto proprio il twist della “scuola inglese”: 5 centilitri di cognac, 2 di triple sec e 2 di succo di limone. Shakerare, filtrare in una coppetta da cocktail precedentemente raffreddata e guarnire con una scorza d’arancia o di limone.