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Giovanni Dolci, di cinema e cocktail

Da giovane ha bevuto male, poi ha scoperto l’eccellenza. Ha condiviso drink con star del cinema e assistito all’ordinazione di cento Bellini in un colpo solo. Si chiama Giovanni Dolci ed è un executive nell’industria cinematografica.

Giovanni Dolci, da Milano a Londra

La sua avventura da bevitore inizia un quarto di secolo fa, a Milano: «Nonostante fosse una grossa città si beveva da schifo e francamente non so perché. Forse da ragazzino vieni attratto da posti che non puntano sulla qualità, oppure bar validi c’erano ma non avevo i soldi per andarci». La rivelazione giunge con il trasferimento a Londra, nel 2005-2006: ha qualche anno in più sulle spalle, il portafoglio è più grosso e per tutta una serie di ragioni capita al Connaught Bar. E qui, colpo di fulmine.

I gusti di Hollywood

Passano gli anni, Dolci fa carriera e il lavoro lo porta a interagire strettamente con la gente del cinema (niente nomi, «sarebbe inelegante»). Scopre così che negli USA si beve in modo differente: «A Hollywood i gusti sono piuttosto diversi, rispetto all’Europa». Nel senso che sono meno ingessati: «Ho bevuto Martini ultra dry con donne dell’industria che non sembravano obbedire a imposizioni esterne, predeterminate». E la cosa vale anche per gli uomini.

100 Bellini

A questo proposito, anni fa Dolci si trovava per lavoro in Francia insieme a un celebre produttore che «ordinò cento Bellini al bar, perché voleva offrirli a tutti i presenti. Ricordo lo sguardo terrorizzato di chi stava dietro il bancone». Al terrore seguì la professionalità, così «furono preparati vassoi e vassoi di cocktail». Un aneddoto così avrebbe forse reso memorabili Bellini di scarso valore, ma in quell’occasione ci fu pure la qualità.

I requisiti essenziali di un bar secondo Giovanni Dolci

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Dolci ha le idee chiare su ciò che conta in questo ambito. I requisiti essenziali sono cinque: il livello dei drink. ovviamente, ma prima di tutto l’arte dell’ospitalità, «la capacità di interpretare i desideri del cliente. C’è chi va al bar per un momento di riflessione solitaria, chi ci va per rivelare al bartender i segreti più torbidi, chi cerca un rifugio alcolico: secondo me un buon host sa assecondare queste cose».

Il terzo pilastro è l’identità. Non è tanto una questione di concept, anzi: «Penso che ci siamo tutti stancati dei concetti ultra elaborati, che sembrano interessare solamente chi li crea e non il cliente». Per identità si intende che «il bar deve avere una ragion d’essere legata al senso del luogo in cui si trova. Per esempio il mio amato Connaught Bar: racconta una storia di ospitalità ai massimi livelli in un ambiente ultra sofisticato, ma nel contempo molto vibrante e divertente».

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Foto di Julie Couder per Coqtail, riproduzione vietata