“Quando i clienti sono pochi, li studio, li ascolto e ci costruisco un cocktail attorno.” Questa la filosofia di Landriscina, head bartender di Officina.
Anche se i lampioni non hanno ancora preso a illuminare via Giovenale, l’atmosfera all’interno di Officina si sta già riscaldando. Merito di Antonio Landriscina, cocktail-man e bar manager che dietro al suo bancone prepara drink a nastro insieme al suo team.
Landriscina non parla molto quando lavora, osserva tanto, sorride zen e capta i gusti di ogni suo ospite trasformandoli in ottimi cocktail, talvolta studiati con un approccio tailor-made.
Perché a Officina, spazio di recupero creativo e all’avanguardia, l’idea del bartender capo è questa: “I drink devono raccontare per me. Dagli ingredienti che scelgo di usare al modo in cui li miscelo. Sondando i gusti più complessi di ognuno ma viaggiando sulla strada della semplicità dei sapori. Quando i clienti sono pochi, li guardo, li ascolto e ci costruisco un cocktail attorno”, dice Landriscina mentre fa roteare il jigger tra le dita.
Studia molto, non inventa. Propone varianti, non improvvisa. “Osservo la gente. Poi, ammucchio idee, leggo e provo. Il cocktail è come un piatto, bisogna sempre assaggiarlo partendo da una buona conoscenza di ogni prodotto. Questo è un altro aspetto cruciale per la realizzazione dei miei drink. Inoltre il legame con il passato resta fondamentale. A volte mi ispiro a dei testi di liquoristica classica italiana, proprio perché mi sento molto legato alla tradizione e alla cultura del buon bere. Al tempo stesso, però, sono convinto che la ricerca e la sperimentazione siano la chiave per raggiungere originalità e contemporaneità.”
E ogni dettaglio per Landriscina deve essere super curato. “Occorrono capacità di ascolto ed empatia per conquistare il cliente, per trasmettere la cultura del bere miscelato in modo corretto ma leggero”. I suoi cocktail, infatti, sono equilibrati e facili da bere, ricchi di profumi e sfumature.
“Come il whisky che posso miscelare in mille modi diversi perché ha mille sfaccettature. Con lo stesso distillato ottengo un drink dolce, fruttato, aspro, speziato. Oppure posso renderlo più o meno alcolico miscelandolo. Quando infatti un cliente meno esperto mi chiede un cocktail ‘non tanto forte’, spesso si riferisce alla gradazione alcolica. Quindi, interpretando i suoi gusti, gli propongo di partire da un distillato meno invecchiato che posso alleggerire con il giusto abbinamento. L’importante è non dare nulla per scontato”.
La clientela negli ultimi anni è cambiata. “Perché è cambiata la qualità dei locali. Non tutti hanno un palato educato alla miscelazione, ma di sicuro le persone oggi vogliono sapere cosa stanno bevendo. I locali dove bevi distillati mal miscelati, dove esci con il mal di stomaco o il mal di testa stanno calando e non è poco”.
E Milano? “Ormai è una capitale internazionale ed è pronta ad affrontare anche città come Londra o Berlino. E se parliamo degli Stati Uniti, per me, sono sopravvalutati. Non a caso tra i migliori bartender all’estero ci sono anche tanti italiani. Farsi conoscere è fondamentale. Non sono un uomo da competition ma ne comprendo l’importanza. Penso che se riusciamo a fare squadra in modo compatto anche per i bar di Milano ci sarà la possibilità di entrare a far parte dei primi 50 migliori al mondo. In fondo è già accaduto”.
Studiare, mettere tanta passione nello svolgere il proprio mestiere è un qualcosa che passa, buca, e prima o poi arriva. “Giusto, soprattutto per noi. Perché come ha detto qualcuno più grande di me, questo è il lavoro più bello del modo, non me ne vogliano i dj.”