Articolo di Federico S. Bellanca
Imparare dagli errori è fondamentale per non ripeterli. È facile farsi prendere dall’entusiasmo quando una nuova categoria merceologica inizia a interessare i consumatori, ma non sempre è il caso di promuoverla a tutti i costi.
Partendo dal presupposto che “vermouth is the new gin” si possono notare le similitudini che il più celebre dei vini fortificati ha con il distillato e, come seguendo lo stesso canovaccio, stia guadagnando sempre più accoliti, disposti a richiedere specifiche bottiglie al bar e a interessarsi delle materie prime da cui è composto quando lo acquistano in enoteca.
Come definire un vermouth
Tuttavia, proprio alla luce di questa similitudine, sarebbe auspicabile evitare di creare le medesime distorsioni già viste nella categoria a base di ginepro, che sulla lunga corsa lo stanno svalorizzando e banalizzando sempre più. Partiamo dalle basi: per definire un vermouth, c’è sempre bisogno della presenza della sua botanica principale, ovvero l’artemisia maggiore, che si potrebbe paragonare al ginepro nel gin. A questa base si possono aggiungere altre botaniche, con formulazioni classiche o innovative, simili a quanto accaduto con i contemporary gin rispetto ai London Dry.
La differenza con il gin
A differenza del gin però, dove la base alcolica è spesso indifferente e molte micro distillerie comprano l’alcol di base a cui aggiungono le proprie botaniche da fornitori terzi, la base del vermouth, essendo il vino, è fondamentale. Questo ingrediente infatti consente di creare una nuova narrazione del prodotto, basata sulla territorialità e sul concetto di terroir, un aspetto non replicabile nel mondo dei distillati.
Oro rosso, bianco e dry
Perché dunque non bisogna ripetere gli errori del passato? Semplice, nella corsa all’oro rosso, bianco e dry, alcuni produttori stanno già mettendo in atto trucchi come non dichiarare la categoria di appartenenza o presentare semplici vini fortificati come fossero vermouth. Per fortuna queste tendenze sono marginali rispetto a un segmento che sta crescendo in modo sano e si è dato regole interne oltre a quelle di legge, ma l’attenzione è da tenere alta perché i casi sono parecchi.
Vermouth nelle drink list
Un altro spauracchio è quello di lavorare tanto sul prodotto per poi rovinarlo completamente nel momento di proposta dentro ai cocktail. Come è, e come sarà bevuto il craft vermouth? Attualmente quasi nessun cocktail bar propone specifiche combinazioni di vermouth nelle drink list (per esempio una carta dei vermouth come si vede per il gin) e difficilmente i clienti lo richiedono per etichetta in cocktail come il Negroni, dove neanche il gin, a onor del vero, viene spesso specificato.
Il rischio della banalizzazione
Ma mentre il celebre spirits inglese può contare sulla combinazione con la tonica, che lo esalta e rende distinguibile un prodotto dall’altro, manca oggi un drink di riferimento che valorizzi il vermouth come materia prima.
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Immagini credits Julie Couder, location Nik’s & Co, Milano