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Ratafià, il liquore torna di tendenza

Il mondo dei liquori è molto più vasto di quanto sembri a prima vista, e il ratafià lo conferma. Se il nome suona sconosciuto è perché parliamo di un prodotto che per molto tempo ha rappresentato la nicchia della nicchia, nonostante la sua storia plurisecolare. Ora sta però tornando di moda.

Ratafià, cos’è

Il ratafià è un liquore composto da alcol e frutta (in succo o a pezzi). La definizione è piuttosto vaga e di fatto risponde all’esigenza di descrivere una tradizione composita.

In linea di massima si tratta di prendere della frutta e immergerla in vino o in un distillato (cambierà la gradazione alcolica finale). Non è obbligatorio, ma si possono aggiungere aromi di vario tipo: per esempio vaniglia, spezie, scorze di agrumi, erbe. La macerazione ha una durata variabile ed è seguita da filtrazione e dall’eventuale aggiunta di zuccheri, poi dall’imbottigliamento.

Le origini

Il ratafià è prodotto soprattutto in Italia, Spagna, Svizzera e Francia. Ogni nazione, persino ogni singola regione, rappresenta però un mondo a parte per via della natura squisitamente artigianale di questo liquore.

Ogni luogo ha ingredienti prediletti e una propria lavorazione specifica: caratteristiche che rispecchiano l’origine del ratafià, un liquore prodotto sicuramente già nel 17° secolo e molto probabilmente su base strettamente locale.

Le fonti non consentono di essere precisi, ma ciò che emerge è che una data ricetta poteva essere messa a punto all’interno di un convento, mentre un’altra poteva essere patrimonio familiare tramandato di generazione in generazione. Insomma, al di là del denominatore comune rappresentato dall’infusione di frutta e alcol, ognuno faceva da sé. Il più delle volte ricorrendo a ciò che cresceva nei dintorni.

Ogni luogo ha il suo ratafià

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Si spiega così l’esistenza di prodotti che ancora oggi denotano connotazioni regionali. Vedi il ratafià del biellese fatto con ciliegie nere, o quello di Abruzzo e Molise a base di amarene, o ancora quello della Valle del Liri (frutti di bosco) e quello catalano e del Canton Ticino (noci verdi). Alcuni preparati con vino e altri con acquavite, alcuni con spezie aggiunte e altri no, alcuni filtrati e imbottigliati dopo una trentina di giorni e altri dopo mesi.

Perché si chiama così

L’incertezza sulle origini si accompagna a quella intorno al nome. Tutto porta però alla lingua latina (quella dell’età moderna) e agli atti pubblici. Il ratafià si chiamerebbe così grazie al brindisi che sigillava un accordo raggiunto. Ci sono due ipotesi, senza che sia possibile sceglierne una in via definitiva.

In un caso il nome deriverebbe dalla firma di un accordo di pace e dalle parole pax rata fiat, nell’altro dalla ratificazione di un atto notarile e dall’espressione ut rata fiat. In entrambi i casi si trattava di bere come atto di celebrazione e buon augurio.

Il nuovo trend

Lasciamoci alle spalle i secoli che furono e torniamo nel presente. Qua e là emergono segnali che lasciano intendere l’esistenza di un trend del ratafià. È difficile dire quale tipo di futuro lo aspetta e non è facile rintracciarne l’origine.

In questo secondo caso è probabile che tutto sia nato sulla scorta del precedente ritorno in auge dell’amaro, con il recupero di antiche ricette e l’affermazione di validi prodotti artigianali. La rinnovata attenzione per sapori meno industriali avrebbe favorito la riscoperta delle aziende che imbottigliano ratafià in ossequio alle usanze di un tempo.

Immagini credits Julie Couder e Coqtail, location Nik’s & Co, riproduzione vietata