Lo shochu, prima fermentato e in seguito distillato, vista la natura ibrida tra i cereali e le numerose botaniche, si rivela versatile come un gin. Anzi, come sostiene l’esperto di shochu Federico Medici, come un “Super Gin”.
Shochu o “Super Gin”
Se esiste un distillato che incarna il bere popolare giapponese è lo shochu. Superato negli ultimi decenni il sake in consumo e apprezzamento, dalle coste del Paese del Sol Levante lo shochu si appresta a mettere radici solide anche qui in Occidente.
Le sue innumerevoli qualità, tra cui la bassa gradazione alcolica, l’alta versatilità e la considerevole quantità di varietà di botaniche e altri ingredienti, fanno di lui un prodotto facilmente miscelabile. Come il gin.
I puristi del distillato di ginepro forse non condivideranno l’accostamento, ma gli intenditori più audaci approveranno questa scelta.
“Negli anni abbiamo visto l’ascesa del gin in termini di nuove etichette e consumatori. La sua flessibilità ha permesso di giocare di fantasia e sono nati nuovi gin dai fiori alle fave di cacao, dal tè fino alle olive. In questo lo shochu non è da meno. Se esistesse la categoria, potrei definirlo un ‘Super Gin’, vista la natura ibrida tra cereali e botanica, con la differenza che la componente botanica è abbondantissima, nonché presente già in fase di fermentazione”, spiega Federico Medici, esperto di shochu e socio di Bere Giapponese.
La storica Distilleria Ochiai
Ecco un paio di esempi provenienti dalla prefettura di Miyazaki, nella regione del Kyushu, nel sud del Giappone e considerata il centro dello shochu. Dalla distilleria Ochiai, fondata nel 1909 e oggi arrivata alla quarta generazione, due prodotti inusuali: Kagamizu Ginger e Piment.
“Questi due spirits rappresentano per me quelli che descrivevo prima come ‘Super Gin’. Il Kagamizu Ginger è un distillato di orzo, con koji di riso e zenzero, che è il 20% della materia prima. Mentre Piment è un distillato di orzo e peperoni verdi, che scende bene tra palato e gola, con un finale aromatico che sorprende”, dice Medici.
Le caratteristiche del Kagamizu Ginger
Kagamizu Ginger è uno shochu dal sapore secco e intenso, con una nota conclusiva fresca regalata dallo zenzero che si unisce al gusto dolce dei cereali. Nel Kagamizu questa radice piccante ammonta al 20% degli ingredienti (interamente made in Japan) e, una volta fermentata, ne detta le regole in distillazione grazie anche all’apporto dell’orzo distico (e koji di riso) coltivato a Kyushu.
Invecchiato 3 mesi, Kagamizu Ginger è adatto alla preparazione di cocktail. Ottimo da provare come fosse un gin tonic senza zucchero, è sufficiente abbinarlo con acqua gasata o un top di soda.
“Non solo. Fresco e aromatico questo shochu allo zenzero è molto interessante e si è rivela utile anche nella preparazione dei cocktail. Lo consiglierei per una variante sul Collins, in modo da valorizzare le sue caratteristiche. Ma non escludo altri utilizzi in miscelazione, persino unito un distillato pregiato come il whisky giapponese”, suggerisce Sergio Testaverde, bartender esperto in distillati e fermentati asiatici che da tre anni conduce la mixology del ristorante Mu Fish di Nova Milanese.
Le caratteristiche di Piment
Per chi ama i sapori insoliti, Piment è uno shochu che sa e profuma di peperoni. Per ogni bottiglia di Ochiai ne vengono utilizzati ben 10 che, fermentati per preservare i sapori primari, poi passano alla distillazione discontinua a pressione atmosferica dell’orzo distico e koji di riso.
Le note intense delle Solanacee presenti rendono lo shochu Piment molto interessante tanto che nel 2020 si è aggiudicato la Medaglia Rossa del The Wine Hunter Merano.
“Questo shochu al peperone è un prodotto particolare. Al naso appare pungente, mentre in bocca è più delicato del previsto. Sicuramente lo si può definire una chicca da poter utilizzare per la preparazione di twist on classic. All’assaggio mi ricorda un distillato del sud-est asiatico cinese che, qualche tempo fa, ho utilizzato in una variante del Tommy’s Margarita. In quel caso avevo sostituito il tequila al mezcal. Però non escluderei l’accostamento dello shochu al peperone a distillati neutri, come la vodka, che ne accentuino maggiormente le giovani peculiarità. D’altronde in Giappone i peperoni verdi sono arrivati di recente”, ricorda Sergio Testaverde.
La storia dei peperoni giapponesi è infatti piuttosto nuova. Quelli verdi furono introdotti solo nel 19esimo secolo, coltivati principalmente come pianta ornamentale.
La popolarità dei peperoni come prodotto alimentare aumentò dopo la Seconda Guerra Mondiale, ovvero dopo che molti prodotti americani vennero importati in Giappone. Oggi, i peperoni verdi giapponesi sono coltivati principalmente nella Prefettura di Miyazaki. Proprio dove si trova la Distilleria Ochiai.
Gli innumerevoli ingredienti dello shochu
Non di soli peperoni però, è fatto lo shochu. Preparato con ben 54 ingredienti diversi, questo spirito dà origine a 200 varianti approvate dal protocollo giapponese.
“Più comunemente, lo shochu è composto da una purea di patate dolci, orzo, riso, zucchero di canna, grano saraceno o mosto avanzato dalla produzione del sake. Ma come abbiamo visto può essere a base ginger o peperone. Oppure può spiccare per i suoi profumi di artemisia, castagna, funghi enoki, cipolla, tè verde, alghe wakame, shiso o sesamo. La nota vincente, oggi, è provare a fermentare anche ingredienti inusuali che poi distillati donano il meglio di sé”, continua Medici.
La storia dello shochu
Se si pensa alla storia della distillazione, molte sono le leggende. C’è chi la fa partire dalla Persia ed espandere a est della Cina, chi la fa raggiungere le coste della Thailandia, per arrivare a quelle del Giappone passando dall’isola di Okinawa, dove si distilla ancora oggi l’Awamori.
Quando si parla di shochu, invece, la prima testimonianza scritta riguarda quella rappresentata su un graffito ritrovato sul tetto di un tempio. La storia risale al 1559 quando alcuni operai che lavoravano alla ristrutturazione di un edificio sacro a Kagoshima lasciarono inciso un commento sprezzante sulle tegole del tempio riguardanti il sacerdote, definito avaro nell’offrire shochu ai suoi carpentieri.
Questa è la prima volta che si legge della bevanda in Giappone che, nel tempo, si è diffusa per venire distillata con i fermentati più disparati.
Le caratteristiche dello shochu
Il più antico resta lo shochu a base di riso le cui note si avvicinano a quelle del sake. Al palato infatti appare leggero e fruttato, mentre al naso è morbido e vellutato.
Se si parla invece di shochu a base di orzo questo è ricco di aromi tostati e molto simili al gusto delle noci. Invece quello a base di patate dolci è profondamente aromatico e molto vicino all’umami.
La sensazione delicata in bocca e il gusto complesso dello shochu sono dovuti ai processi di fermentazione paralleli che avvengono nell’alambicco. “La saccarificazione, ovvero quando gli amidi si convertono in zucchero, avviene tramite koji nero, bianco o giallo. La fermentazione alcolica, quando i lieviti consumano lo zucchero per produrre alcol, unita alle botaniche o ad altri ingredienti, affinano quelle note che diventano poi la cifra di quello spirito che meglio non potrei descrivere se non presentandolo come un ‘Super Gin’ da assaggiare”, prosegue Medici.
Da provare per apprezzane il potenziale creativo illimitato, che cattura l’essenza di un tempo e di un luogo.